Wadaiko Yamato


Il sentore lo avevo gia' avuto anni fa con i Kodo, ma dopo aver visto i Wadaiko Yamato in azione posso affermare che la manifestazione percussionistica da me preferita in assoluto e' proprio quella legata alla cultura dei Taiko giapponesi. Non ci sono poliritmie africane che tengano, anche se il senegalese Baba Sissoko col suo ancestrale tamburo parlante sfida apertamente leggi fisiche e fisiologiche per parlarci dell'Inizio del Mondo. Persino la voce liquida della tabla indiana, che ha in Trilok Gurtu l'interprete forse piu' stupefacente, viene oscurata da questa espressione di pura potenza e perfezione che viene dall'Impero del Sol Levante.

 

 

Rispetto ai Kodo, piu' antichi e solenni (il loro gigantesco tamburo che appunto da' il nome al gruppo e che significa "battito del cuore" quando viene percosso fa tremare l'universo), questi giovani Wadaiko Yamato si presentano in formazione mista, cinque uomini e cinque donne, scherzano educatamente col pubblico, fanno anche un po' di studiatissimo casino. Ma non fatevi ingannare: la preparazione psicofisica di questi dieci personaggi che sembrano appena usciti da DragonBall - ed ora e' evidente che gli anime, ben lungi dall'essere opere di fantasia, non sono altro che fedeli documentari - si manifesta quando i muscoli di questi samurai ritmici si gonfiano e le bacchette - dei mazzuoli di legno da qualche chilo, in verita' - si liquefanno davanti ai nostri occhi, antiche spade giapponesi, in un indistinto, irrefrenabile, tonante motion blur.

 

 

 

Allora il tempo e lo spazio si annullano e qualcosa passa attraverso queste dieci diverse materializzazioni di una singola entita', dieci dita di una mano invisibile che si muovono all'unisono eppure ognuna slegata dalle altre, regalando un nuovo significato al concetto di bellezza. Evidentemente la Forza, quella di Luke Skywalker, esiste davvero, perche' non c'e' altra spiegazione per un simile accadimento. Pattern ritmici, salti, urla, variazioni e accenti impossibili da ricordare, persino i continui spostamenti dei tamburi sul palco - caleidoscopica incessante riconfigurazione dell'analogo percussivo di un giardino Zen - vengono eseguiti senza sforzo apparente per un tempo che sembra infinito, mentre gli sguardi degli esecutori sono persi nel vuoto. Probabilmente in quei momenti i Wadaiko Yamato contemplano l'Assoluto, perche' anche chi e' lontano anni luce dalla loro cultura ne sente il rimbombo mentre la bocca degli astanti si spalanca involontaria in un muto urlo di stupore. Ogni colpo e' come se fosse l'ultimo, ogni singolo movimento - dall'alzare un braccio allo spostare un tamburo da cento chili - fa parte di un disegno universale in bilico tra la pura perfezione stilistica e il piu' profondo e primordiale coinvolgimento emotivo. Quando finalmente ricominciano a respirare e sorridono, i Wadaiko Yamato sono l'espressione stessa della felicita' - e' come l'aquila in picchiata, il ghepardo in accelerazione, la coda della balena, i delfini che giocano chiamando le stelle.

 

 

Alla fine del concerto, quando Akiko Ogawa esce a sorpresa dalle quinte con mossa che piu' manga non si puo' - corsetta a passi brevi e veloci, sorrisone, mezzo inchino e silenzioso invito a comprare il CD del gruppo, presentato al pubblico in maniera rigorosamente simmetrica esibendolo con entrambe le mani - non posso reprimere un sospirone, pero' subito associato alla riflessione che una tipa cosi' (tanto gentile ed onesta pare), qualora tornassi a casa ubriaco di sake, potrebbe frapparmi di mazzate in stereo - due mattarelli, uno per mano - per un'ora e mezza senza battere ciglio. Cosi' evito di andarle a chiedere se mi vuole immediatamente sposare onde scansare la genesi di una versione intercontinentale di Andy Capp e mi limito a tamburellare nervosamente con le dita per i successivi nove giorni. Ah, ma appena finisco di leggere il Manuale del Ninja…

 

Foto di Andrea Hanktattoo Leone